No al CPT di Brandoni e Berlusconi a Falconara, contro la falsa sicurezza, per il bene comune
Sono più di sei mesi (0,1,2), dalla scorsa estate, che il governo Berlusconi, con la complicità dell’Amministrazione locale di destra Brandoni, preparano il terreno per l’istituzione di un CPT a Falconara (centro di detenzione ed espulsione per immigrati, cui oggi hanno dovuto aggiornare la sigla in CIE, viste le polemiche a quasi dieci anni dalla loro discussa e travagliata costituzione), ennesimo scempio e monumento al degrado cittadino.
Ora per applicare l’ultima e aggiornata versione del Pacchetto sicurezza (1), falsa panacea per tutti i mali nazionali, hanno deciso che Falconara debba diventare la nuova Lampedusa dell’Adriatico, centro di detenzione, smistamento e gestione degli immigrati, in realtà luogo di carcerazione arbitraria all’interno del quale si ripetono sistematiche violazioni dei diritti umani.
Secondo Berlusconi e Brandoni la miglior ricetta per risolvere il problema sicurezza, in Italia come a Falconara, sono le ronde di Alleanza Nazionale e i CPT: non bastava il calo demografico e la fuga dalla città dei falconaresi, non bastano le megacentrali API, nè il dissesto finanziario, o il giro di vite sul tessuto associativo con i nuovi regolamenti, nè le fantasiose ordinanze "antisbandati" che reprimono gli ultimi scampoli di libertà, vita cittadina, e commercio locale.
Con il CPT e la conseguenziale militarizzazione del territorio che comporta, i fatti di disordine pubblico mostratici su tutte le televisioni dai recenti fatti di Lampedusa saranno la norma e il futuro che la destra vorrebbe imporre alla nostra Città.
Ma se a Lampedusa è stata la stessa Amministrazione, e l’intera cittadinanza, a rigettare, insieme agli immigrati, il destino imposto di "carcere a cielo aperto" e "frontiera di polizia" che comprime e soffoca le libertà di tutti, Falconara può essere disposta ad accettare il ruolo di pattumiera di ogni questione ambientale e sociale, reale o inventata, o dettata dalle politiche securitarie governative?
Né qui, né altrove: i cpt, come le leggi "sicuritarie" alla Bossi Fini non solo non servono, ma peggiorano le problematiche dell’immigrazione. In quasi un decennio hanno solo prodotto maggiore clandestinità, più lavoro nero e precario (non solo per i migranti, ma per tutti…), complicato gli istituti di regolarizzazione e integrazione, e soprattutto hanno diffuso la paura e l’incertezza, l’arbitrio e la legge del più forte come regola.
Sono loro i principali responsabili del degrado, della mancanza di sicurezza, della precarizzazione del lavoro e della vita, della devastazione ambientale.
Ciò di cui Falconara ha bisogno è invece una riqualificazione del territorio, tramite politiche di coesione ed inclusione culturale, la garanzia di servizi sociali, sanitari, abitativi e l’incentivo delle forme di solidarietà sociale ed impresa locale, a prescindere dal ‘colore della pelle’ di chi le esercita.
Non una sicurezza ideologica ed interessata a dividere e disgregare il tessuto sociale, ma una sicurezza che unisca, tuteli il territorio e quanti abitano, vivono, lavorano a Falconara. Il degrado di Falconara colpisce tutti: cittadini, commercianti, artigiani, operatori turistici.A Falconara e nelle Marche, come in molte altre località e regioni, non c’è posto per i cpt perchè non ne abbiamo bisogno e non li vogliamo, perchè sono il frutto di una cultura e di una politica che non appartiene e che anzi minaccia le nostre comunità.
Da mesi Brandoni ripete che si piegherà anche a questa ennesima decisione dall’alto, contribuendo così al degrado di una Città dormitorio e luogo di concentrazione delle criticità industriali, ambientali, sociali delle Marche.
Mercoledì prossimo il Governo inserirà ufficialmente Falconara nella lista delle nuove località costrette ad ospitare questi nuovi centri di violenza e detenzione per i migranti.
Per questo è necessario che tutte le associazione e i singoli cittadini che operano nell’ambito della solidarietà sociale, della promozione dei diritti e
della qualità della vita cittadine, convergano in un momento assembleare di discussione e scambio di esperienze,
per scongiurare questo ennesimo scempio verso la nostro martoriata Falconara!
Per questo continueremo questa campagna di denuncia e rigetto dei cpt e delle leggi sicuritarie, per i diritti e la sicurezza di tutti, per la difesa e l’autonomia delle comunità marchigiane dai rigurgiti di odio e intolleranza che qualcuno vorrebbe importare, che qui non troveranno cittadinanza…
Ambasciata dei Diritti – CSA Kontatto
Approfondimenti:
Paolo Cognini dell’Ambasciata dei Diritti su GlobalProject ;
La Regione Marche; anche la Provincia dice no;
"Prima che sia troppo tardi" di Sandro Mezzadra
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GIOVEDì 12 MARZO, ORE 21:30, CENTRO PERGOLI(p.zza Mazzini, Falconara M.ma)
PER UNA FALCONARA VERAMENTE “SICURA” E ACCOGLIENTE
NO A CIE (EX-CPT), RONDE E ORDINANZE SECURITARIE…
Come cittadini e associazioni che si impegnano quotidianamente nel sociale e nell’accoglienza, crediamo che le norme del “pacchetto sicurezza” rispondano in modo fuorviante e deviato ad un bisogno pur legittimo di sicurezza sociale.
In particolare l’apertura (più o meno prossima) di un Cie (Centro di Identificazione e Espulsione), al di là delle ben note questioni di carattere umanitario che ne conseguono (per noi sempre prioritarie), e della presumibile “militarizzazione” del territorio che la sua apertura a Falconara comporterebbe, gli episodi drammatici di disordine pubblico verificatisi a Lampedusa come altrove, potrebbero essere la norma e il futuro che si vorrebbero imporre alla nostra Città. Altro che sicurezza…
Falconara è disposta ad accettare che ogni questione, ambientale o sociale, reale o inventata, debba essere dettata e risolta dall’alto, a prescindere dalla reale volontà e dal consenso della cittadinanza? E’ disposta ad accettare l’ennesimo scempio, degrado, fattore di crisi del territorio?
L’istituzione di un CIE, o CPT, è la punta dell’iceberg e la goccia che fa traboccare un vaso già colmo, ormai saturato dalle ordinanze antiprostituzione e antibivacco (trattati come meri problemi di decoro urbano e non questioni sociali) e da quelle già declamate e in via di definizione, come dalle dichiarazioni di prossima costituzione delle ronde, o dalle spettacolarizzazioni mediatiche dei “blitz anti-immigrazione”, insieme al clima diffuso di paura e intolleranza instillato in questi mesi nei cittadini di Falconara.
Partendo proprio dal nostro impegno quotidiano con le persone che si rivolgono alle nostre strutture crediamo che la legalità (anche per noi un valore importante) debba coniugarsi con la ricerca di percorsi di giustizia, assumendo il “bene dell’uomo” (di ogni uomo) come valore fondamentale e “bussola” che orienti le scelte.
Il lavoro sociale e culturale per la costruzione di una città vivibile per tutti è molto più difficile e complesso di interventi spot che cercano di “vendere” una sicurezza a basso costo dalla scarsa efficacia reale. I migranti, i diversi, i soggetti deboli stanno diventando il facile capro espiatorio per imporre un inedito, quanto pericoloso, ordinamento autoritario che lede e mette a rischio le libertà e i diritti di tutti, senza risolvere, anzi moltiplicando i problemi alla base di una reale e legittima richiesta di sicurezza proveniente da ambiti sociali differenti.
Non abbiamo bisogno di una sicurezza ideologica ed interessata a dividere e disgregare il tessuto sociale, ma di una sicurezza intesa come bene comune, che unisca e tuteli il territorio e quanti abitano,vivono, lavorano nella nostra città. Il degrado e l’insicurezza, a Falconara come altrove, colpiscono tutti i cittadini, a prescindere dalla loro provenienza e dal colore della loro pelle.
Per questo associazioni e cittadini, espressione della società civile falconarese, hanno inteso costituirsi “in rete” per sollecitare un serio quanto urgente dibattito sulle modalità per costruire una città sicura e vivibile per tutti.
Una prima assemblea pubblica è prevista per
Giovedì 12 Marzo alle ore 21.30 presso il centro Pergoli – Piazza Mazzini Falconara,
per programmare una campagna di informazione e sensibilizzazione verso la cittadinanza e proporre spazi di confronto con l’amministrazione comunale.
Ambasciata dei Diritti – Tenda di Abramo – Free Woman – L.H.A.S.A.- Lumumba Onlus – ANPI Falconara – CSA Kontatto – Comunità Bangladesh Falconara – Associazione Antidroga Falconarese – Falconara Cricket Club – L’OndaVerde – Blu Pubblica Assistenza – L’orecchio di Van Gogh – Servizi di Strada Onlus
Così si vive a Lampedusa isola carcere d’Europa
Un poliziotto ogni migrante, uno ogni dieci abitanti: “Come la volete
chiamare?”. E dopo il decreto sicurezza teme di trasformarsi nella “tomba
dei clandestini”.
CARLO BONINI per Repubblica.it
ISOLA DI LAMPEDUSA – Il pattugliatore 290 della Capitaneria di Porto lascia
la darsena del molo vecchio con la luce del primo giorno, scatarrando
cherosene nell’azzurro cobalto dei fondali. Perché la clemenza del
bollettino del mare e la disperazione di chi lo attraversa sono più forti
di un decreto legge. Perché per quarantotto ore, il canale di Sicilia si
fa laguna e nella notte torna a restituire uomini, donne e bambini alla
deriva. Questa volta, e “per disposizione di Roma”, agganciati sui loro
barconi oltre l’orizzonte e destinati alle spiagge di porto Empedocle, in
Sicilia, e ai centri di identificazione ed espulsione (Cie) dell’isola
madre.
In una coltre di “discrezione” che consenta di dire che gli sbarchi su
questo scoglio di 20 chilometri quadrati si sono spenti d’incanto dopo il
consiglio dei ministri che appena venerdì ha riscritto un significativo
paragrafo della Bossi-Fini. Con la stessa rapidità con cui sono state
soffocate prima, e cancellate dai palinsesti televisivi poi, le fiamme
della rivolta tunisina nel centro di contrada Imbriacole.
È una finzione che, a ben vedere si è già svelata, nella notte tra
sabato e domenica, sulle rocce di Punta Sottile, dove un gommone ha
scaricato nove ombre inebetite e incartapecorite da freddo, acqua e
salsedine, che parlavano la lingua del Maghreb. È una finzione che deve
sedare la collera di seimila isolani e del sindaco ribelle che ne è alla
testa, un ex seminarista nato a Pantelleria, eletto con il Movimento per le
Autonomie di Lombardo, che di nome fa Bernardino De Rubeis e ha
inopinatamente cominciato a chiamare le cose con il loro nome. Qui, sulla
terra ferma e persino a Bruxelles. Dimostrando che Lampedusa non è la
nuova linea del Piave contro la spallata dei migranti del sud del mondo. Ma
ne è e ne sarà solo la discarica. Non più luogo di transito della
disperazione. Ma suo centro di stoccaggio e smaltimento definitivo.
IN PIAZZA Libertà, appesi agli infissi scrostati delle case che affacciano
sul corso e a quelle del fatiscente Municipio, lenzuoli imbrattati di
vernice rossa e verde lo raccontano a modo loro. “Le carceri al Nord, anche
lì spazio ce n’è”; “Maroni affonda Lampedusa. Lampedusa affonda Maroni”;
“Pacchetto vacanze Lampedusa 2009. Camera con vista mare, gita in barca con
avvistamento clandestini. Visita guidata Centro di identificazione ed
espulsione e la sera birra con amico africano. Inoltre, per la vostra
sicurezza, un militare per ogni bella donna. Il tutto offerto dal
presidente Berlusconi e dal ministro Maroni. Grazie”.
I numeri del Viminale dicono che alla mezzanotte di sabato 21 febbraio, nel
Cie di contrada Imbriacole i detenuti, che la burocrazia dell’immigrazione
chiama “ospiti”, erano 579. Tutti tunisini. E che a quella stessa data e
ora, il “dispositivo di sicurezza” sull’isola aveva raggiunto i seicento
effettivi. Un uomo in divisa per ogni migrante. O, se si preferisce, un
uomo in divisa ogni dieci isolani. Carabinieri dei battaglioni di stanza in
Sicilia, reparti mobili della polizia di stato risucchiati dalle questure
di Catania e Palermo, finanzieri, soldati di esercito e aeronautica
militare assegnati all’operazione “Strade sicure”. Occupano ogni posto
letto disponibile sull’isola (gli alberghi sono al completo fino ad agosto)
e hanno trasformato il paesaggio verde e turchese dell’isola in un pezzo di
Ulster italiano.
Soldati smontanti che fanno jogging sulle banchine. Cellulari per il
trasporto dei reparti antisommossa parcheggiati con il muso rivolto verso
l’oasi naturale dell’isola dei conigli. Scudi di plexiglass e sfollagente
appoggiati all’ingresso delle taverne del porto dove vengono serviti
spaghetti al nero di seppia e calamari alla plancia in convenzione con il
Viminale.
“Lei come la chiama questa, eh? La chiama isola o la chiama carcere? È
Lampedusa o Guantanamo?”, dice il sindaco. A Roma, gli danno ora del pazzo,
ora dell’irresponsabile, ora del furbacchione pronto a flirtare con quel
che resta dell’opposizione di centro-sinistra e, prima o poi, a scendere a
patti con il Governo, magari in cambio di un congruo indennizzo. Lui sembra
infischiarsene e ripete come un disco rotto quel che nessuno sembra
disposto ad ascoltare sulla terra ferma. “Qui i senza futuro non ci possono
stare. Noi possiamo continuare a fare quel che abbiamo fatto fino a un mese
fa, quando il nostro era ancora un centro temporaneo di primo soccorso.
Accogliere e strappare alla morte in mare chi arriva qui fuggendo la guerra
e la miseria. Ma non possiamo fare di più. Lampedusa può essere un centro
di transito, non può diventare la tomba dei clandestini in attesa di
rimpatrio coatto”.
Per spegnere l’ex seminarista che si è fatto incendiario, è arrivata
sull’isola la donna che, per anni, ne è stata il braccio destro. L’ex
vicesindaco Angela Maraventano, nata, cresciuta e residente a Lampedusa,
oggi senatrice della Repubblica eletta con la Lega in un collegio scelto a
caso in quel dell’Emilia Romagna. Di De Rubeis, la Maraventano pensa e dice
il peggio. Di quel che sarà o dovrà essere l’isola dice di essere sicura
tanto quanto la maggioranza di governo che rappresenta: “Fine del buonismo.
Chi arriva a Lampedusa deve sapere che da qui ripartirà solo per tornare a
casa propria. Il sindaco non vuole il Cie? Io l’ho detto a Maroni: per me i
centri li possiamo anche fare in mare. Sulle navi della marina, così
questi che ancora ci provano non toccano neanche terra. Hanno bruciato il
centro? E noi lo ricostruiamo. Subito. Provano a bruciarlo di nuovo? E noi
gli togliamo gli accendini e le sigarette, che fanno anche male alla
salute. Il piano Maroni funzionerà. Vedrete, se funzionerà”.
Le statistiche lasciano prevedere il contrario. Il 70 per cento dei
migranti che raggiungono Lampedusa fugge le guerre del Corno d’Africa e non
c’è decreto legge che possa metterne in discussione il diritto all’asilo
politico, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Dunque, in Italia resteranno.
Solo il trenta per cento (tunisini, marocchini, egiziani) arriva da quel
Maghreb verso il quale dovrebbe essere rimpatriato. Ma è un numero così
alto che non c’è discarica o prigione che possa contenerli. Novemila
migranti maghrebini nel solo 2008. Vale a dire almeno otto volte il numero
di clandestini per il quale gli accordi bilaterali chiusi dal nostro Paese
consentono il rimpatrio coatto ogni anno.
Non è un calcolo complicato. Se da domani non arrivasse sull’isola anche
un solo maghrebino in più (e non sarà così), ci vorrebbero almeno sette
anni per riportare indietro quelli che già sono in Italia.
Ma nella logica di una gestione dell’emergenza che ricorda come un calco –
persino nel linguaggio – quella dell’immondizia campana, lo stato di
eccezione permanente si fa norma. A Lampedusa uomini e cose vengono
impilati in buchi scavati nella terra. Gli uomini a Sud, nel centro
sprofondato nella forra di contrada Imbriacole (le donne e i minori, in
questi giorni assenti dall’isola, sono trattenuti nella ex base Loran
dell’aeronautica, a Ponente). Le cose a nord, in una ferita aperta dalla
Protezione civile tra le argille di Taccio Vecchio, area naturale a
protezione integrale della Comunità europea, violata dalle ruspe della
Protezione civile in nome delle “procedure in deroga” per gli stati di
calamità. Tre colline di legno, gomma e ferro, dove, inclinati su un
fianco come carcasse di cetacei, riposano i barconi della disperazione,
marchiati al loro arrivo con la vernice rossa di chi li agguanta (G. F.,
guardia di Finanza; C. P. Capitaneria di Porto) e destinati ad essere
“tritovagliati” insieme alla rumenta dell’isola.
Simona Moscarelli, avvocato dell’Organizzazione Internazionale Migranti
(una delle ong, che con “Save the children”, l’Alto commissariato per le
Nazioni Unite e la Croce Rossa lavora nel Centro di identificazione ed
espulsione), racconta che ai prigionieri dell’isola nessuno ha ancora avuto
il coraggio di comunicare quale sarà il loro destino. Che, verosimilmente,
toccherà farlo a una delegazione del governo tunisino attesa per oggi.
“Vogliamo prima capire se il decreto si applicherà anche a chi è sbarcato
prima dell’approvazione della nuova legge”, dice abbassando lo sguardo.
Anche perché ricorda cosa è stato, sin qui, spiegare agli “ospiti” un
altro dei buchi neri in cui la burocrazia dello smaltimento migranti ha sin
qui annegato i ricorsi di chi, dichiarandosi minorenne, viene al contrario
destinato al rimpatrio perché ritenuto maggiorenne. “La legge prevede il
diritto di ricorso al Tar. Ma quello di Palermo si è dichiarato
incompetente a favore dei giudici di pace di Agrigento. I quali, però, si
sono detti a loro volta incompetenti. E comunque, chi ricorre non può
contare sul gratuito patrocinio degli avvocati”.
Ricorrere è inutile. Quasi quanto chiedere oggi accesso al Centro. Non è
un carcere, dicono. Ma, esattamente come un carcere, è ora impermeabile al
mondo esterno “per motivi di incolumità”. Gentili funzionari del Viminale
assicurano che “tutto è tranquillo”. Che “gli ospiti giocano persino a
pallone”. Dalla collina che lo sovrasta, lo spettacolo è diverso. Nei due
bracci sopravvissuti all’incendio, separati dallo scheletro di lamiera
dell’edificio fuso dal calore delle fiamme, una folla di uomini ciondola e
spesso grida, agitando stracci dai ballatoi degli alloggi in cui è
stipata. In brande e a terra. Nell’unico, angusto cortile, si sta seduti a
gambe incrociate per l’appello, sotto lo sguardo di poliziotti trasformati
in secondini. Tanto da strappare a Franco Maccari, segretario generale del
Coisp, sindacato di polizia, arrivato sull’isola per guardare con i suoi
occhi, che “in una situazione così degradante e allucinante, il peggio
può ancora venire”.
Una nuova rivolta o magari un’altra notte come quella del 6 febbraio
scorso. Alle 19 di quel venerdì, come ne documentano i registri di
ingresso, arrivò nel poliambulatorio dell’isola il primo tunisino
trasportato d’urgenza dal Centro. E dopo di lui, altri otto. Fino alle 5.20
del mattino. Nello stomaco di tutti, imprigionati in molliche di pane e
morsi di patata, “corpi radio opachi”. Lamette da barbiere. Nascoste nelle
protesi dentarie al momento dello sbarco e ingoiate poi. Per bucarsi dentro
e riuscire ad evadere dall’isola che si è fatta sarcofago.
——————————————–
FALCONARA NON SARà LA LAMPEDUSA DELL’ADRIATICO!!
NO CIE!