21/10/’007 SABOT! 2007


 

Si svolgerà domenica 21 ottobre presso il Csa Tnt di Jesi il primo appuntamento di Sabot 2007.

Un momento di confronto dedicato a un'analisi dell'esistente "che nasca direttamente dalla rielaborazione degli input che ci provengono dal nostro agire materiale". Un laboratorio teorico e progettuale delle Comunità Resistenti delle Marche che parte da una suggestione che attraversa la storia e l'etimologia.

Sabot 2007 si terrà domenica 21 ottobre presso il Csa Tnt di Jesi (An)

(Via Politi, vicino alla stazione Fs)


L’inizio dei lavori è previsto per le ore 10,30.

Leggi la presentazione dell'incontro 

 

 

Sabot 2007

Il termine sabot nasce originariamente dalla parola turca sabata, che indicava una calzatura persiana. Il termine entrò nello spagnolo come zapata (oggi zapato – scarpa da cui l’italiano ciabatta) e nel francese come sabot (zoccolo).

Per una curiosa coincidenza della storia, la radice etimologica di
questa parola ha finito con l’intrecciarsi a grandi movimenti di
opposizione e ribellione sociale. In Messico il nome Zapata
mutua l’etimologia del termine e finisce con il trasferirla nella
denominazione di un vasto movimento rivoluzionario: lo zapatismo. In
Francia tra la fine del 18esimo secolo e l’inizio del 19esimo i sabotssabot verrà così coniato il termine sabotaggio.

Per queste ragioni la parola sabot ci è sembrata una
suggestione da poter utilizzare come “titolo” dell’incontro che stiamo
preparando per domenica 21 ottobre. Oramai da molti anni è nostra
abitudine organizzare periodicamente un appuntamento di discussione
generale principalmente orientato alla riflessione sullo stato della
rete ed al confronto più teorico sul contesto all’interno del quale la
rete intende sviluppare la propria azione. Fino ad oggi questi
appuntamenti non hanno avuto cadenza fissa, mantenendo un taglio
prevalentemente “interno”.

Con Sabot 2007, anche in considerazione del proliferare di
situazioni che si sono aggregate alla rete, abbiamo scelto di
modificare questa impostazione dando a tale appuntamento di natura più
teorica e progettuale, il profilo di un laboratorio con cadenza annuale
ed una strutturazione che si articolerà in due parti:
– la prima aperta e maggiormente incentrata sull’analisi,
per dare spazio ad un confronto teorico che nasca direttamente dalla
rielaborazione degli input che ci provengono dal nostro agire materiale
e dal quotidiano intervento delle nostre strutture;
– la seconda rivolta specificatamente ai “cittadini” delle Comunità Resistenti, per dare spazio ad una riflessione maggiormente incentrata sugli aspetti organizzativi.

Domenica 21 ottobre si svolgerà la prima parte del laboratorio per
la quale abbiamo voluto preparare un ordine del giorno “ragionato”, tre
macro-punti di discussione che non siano semplicemente una lista della
spesa ma che, assumendo alcuni elementi di riflessione già emersi,
rappresentino un primo tracciato del confronto.

1. Auotonomia e "sabotiers"

L’autonomia non è una posizione di principio ma una condizione materiale dei movimenti e del conflitto.

La nostra idea di autonomia è quella di uno spazio dell’agire calato nella realtà concreta, un “essere nel presente”
sottoposto alle pressioni di una realtà globalizzata e globalizzante.
E’ proprio da questo legame inscindibile tra l’idea di autonomia ed il
nostro “essere nel presente” che nasce la problematica
fondamentale di ogni ragionamento sugli spazi autonomi dell’agire e,
cioè, l’individuazione delle loro coordinate all’interno di una realtà
fortemente dinamica, dove il comando si serve di regole variabili ed il
controllo utilizza strumenti di penetrazione storicamente inediti.

Come possiamo trovare delle costanti del nostro “essere autonomi”
senza, tuttavia, farci immobilizzare da categorie fisse, da automatismi
interpretativi che rischiano di sclerotizzare la nostra azione,
rendendola intempestiva e inefficace? Quale paradigma dell’autonomia
può oggi rappresentare nel contempo il bisogno di riconoscersi e la
necessità di mantenersi dinamici, l’ “essere altro” e la necessità di un’interazione costante, poliedrica e multiforme con la realtà materiale che vogliamo trasformare?

Senza voler anticipare nulla della discussione che faremo, ci
sembra che sia possibile fissare da subito un punto di partenza: non
esiste autonomia dove non si produce in forma potenziale o conclamata
un “rischio crisi”, dove non emergano, quantomeno sotto il
profilo delle prospettive, tensioni di destabilizzazione
dell’esistente. In altre parole potremmo dire che non esiste autonomia
dove non esiste una prospettiva di “sabotazione”, intesa come
produzione di una disfunzione nei meccanismi di riduzione al controllo
e come capacità politica di ostacolare i piani di espropriazione delle
decisioni sui territori. I sabotiers erano gli artigiani francesi che realizzavano i sabots,
zoccoli indossati dai lavoratori ed inaspettatamente trasformati da
ordinario capo di abbigliamento in strumenti di sabotaggio.

Il problema della nostra autonomia è principalmente il problema della realizzazione dei nostri sabots,
dell’individuazione e della scelta di quella prospettiva dell’agire
capace di mettere insieme la costante con le variabili, dove la
costante è la produzione di crisi e le variabili sono le
azioni/relazioni di volta in volta messe in campo.
D’altra parte è proprio sulla costante ricerca della produzione
di crisi nei dispositivi del potere che si fonda l’insanabile
differenza tra i nostri percorsi (autonomi) e quelli di chi, pur
agitando la retorica dei diritti e dei bisogni sociali, risolvono la
loro azione all’interno di un paradigma che si colloca all’esatto
opposto e, cioè, quello della governabilità o, comunque, della
equilibratura del quadro istituzionale.
Le stesse esperienze che alcune nostre realtà hanno messo in
campo nelle locali consultazioni amministrative vanno riviste e
reinterpretate. Non si tratta, infatti, di realizzare qualche
“incursione” nel campo avversario e neppure di costruire “nessi
amministrativi”, che, se svincolati da una dinamica conflittuale molto
più complessa e ampia, rischiano di rovesciarsi in forme di
responsabilizzazione: si tratta, piuttosto, di misurare quante e quali
potenzialità di “sabotazione” del quadro
politico-istituzionale-partitico e del suo intreccio con le Spa di
turno, possano essere agite in un determinato contesto territoriale,
abbandonando simili percorsi quando tali potenzialità non esistano o
non siano proporzionate al livello del conflitto in atto.

E’ ancora una volta l’elemento della “sabotazione”, come
produzione di crisi, in questo caso misurato sul quadro
politico-istituzionale, a differenziare irrimediabilmente alcune nostre
sperimentazioni dai percorsi di chi, in continuità con la cultura
novecentesca del “partito di massa”, ritenendo di poter condizionare in
senso “proletario” nuovi aggregati partitici, finisce con il
collaborare all’ennesima quadratura del cerchio istituzionale ed al suo
costante tentativo di stabilizzazione. Ma al di là di quelle che
possono essere alcune nostre chiavi di lettura, resta comunque il fatto
che sono le stesse trasformazione indotte dalla guerra globale a
premere per l’affermarsi di un nuovo ius bellico all’interno del quale
ogni pratica dell’ autonomia ed ogni dinamica reale del conflitto
vengano codificate come “sabotaggio”, come azione delegittimata in sé, non perché “violenta” o “illegale”, ma semplicemente perchè produttrice di un rischio crisi.

2. "Sicurezza", resistenza e luoghi della resistenza: il nuovo "ius bellico"

Negli ultimi mesi la propaganda sulla “sicurezza” ha subito
un’intensificazione senza precedenti, sfociando addirittura in una gara
giornaliera all’invenzione più repressiva, dove anche le proposte più
astruse ed improbabili hanno trovato piena cittadinanza come contributi
alla riformulazione del fondamento culturale e giuridico del controllo
sociale.
Alla potenza della propaganda cosiddetta securitaria, ha
corrisposto una critica debole e disorientata, costantemente avvitata
intorno a concetti ed interpretazioni che non sono in grado di cogliere
la radice più profonda del fenomeno.
La critica più ricorrente è stata quella di accusare il
centro-sinistra di rincorrere il centro destra nell’accaparramento
della rendita elettorale legata alla tematica della sicurezza ed i
concetti più utilizzati nella descrizione del fenomeno sono tutti
riconducibili all’idea di una “svolta securitaria” sostenuta e
legittimata da un “nuovo emergenzialismo”.

Si tratta di una lettura a nostro avviso limitata che,
generalizzando alcuni aspetti parziali, finisce con il ridimensionare
quanto in realtà sta accadendo. Se è vero, ad esempio, che esiste una
competizione elettorale sul tema della sicurezza è altrettanto vero che
i “piani sulla sicurezza” (vedi Bologna) e le principali modifiche
normative passano con indisturbati accordi trasversali tra i due
schieramenti. Definire quanto si sta verificando una svolta
securitaria, se può andar bene nella semplificazione del linguaggio
quotidiano, risulta però fortemente riduttivo sul piano dell’analisi.
L’emergenzialismo che abbiamo conosciuto nella seconda metà del
secolo scorso trovava la sua giustificazione ideologica nella necessità
di difendere l’ordinamento esistente da un pericolo che, nonostante
tutto, veniva rappresentato come transitorio e socialmente localizzato:
la legislazione di emergenza doveva essere una parentesi
nell’ordinamento giuridico “democratico”, destinata a chiudersi una
volta scongiurato il pericolo.
Il fatto che la legislazione di emergenza abbia poi prodotto
modifiche permanenti nell’ordinamento giuridico non cambia le
caratteristiche di fondo del paradigma culturale e politico con il
quale il potere ha sostenuto e legittimato l’emergenzialismo degli anni
'70.

Oggi siamo di fronte ad un fenomeno radicalmente diverso. Lo stato
di guerra permanente presuppone un pericolo permanente e diffuso che
deve essere affrontato con una modificazione genetica dell’ordinamento
e dei dispositivi normativi. Nessuno degli attori della propaganda
securitaria ha parlato di “parentesi” o di soluzioni “temporanee”, al
contrario si è parlato di sicurezza come nuova infrastruttura,
dell’estensione dell’incarceramento come gestione ordinaria del
controllo e della repressione come meccanismo incondizionato ed
incondizionabile dalle “attenuanti” delle contraddizioni sociali.
Quando Veltroni dice che bisogna smettere di distinguere tra
micro-criminalità e macro-criminalità, dando avvallo ideologico alla
persecuzione dei lava-vetri, introduce un elemento che, seppur poco
credibile sotto il profilo fattivo, pone l’esigenza di una modifica
radicale, di un cambio di prospettiva generale nei fondamenti
dell’ordinamento.
Tutto ciò ci porta a pensare che non siamo difronte ad una
“involuzione” autoritaria, ma ad una trasformazione genetica degli
ordinamenti interni, chiamati a sintonizzarsi rapidamente con il
contesto globale della guerra. In realtà ciò che si sta verificando nel
nostro Paese è un’interfaccia di quanto si sta verificando nello spazio
interno degli altri Paesi dell’Europa e del Nord America e nello spazio
esterno dell’ex diritto internazionale: l’emergere progressivo di un
nuovo “ius bellico”, un diritto di guerra calato nelle
specificità del presente come dispositivo normativo permanente,
chiamato ad omologare gli ordinamenti interni ed a gestire, con la
semplificazione repressiva tipica dello “ius bellico”, la complessità del dominio globale.

Importanti segmenti dello ius bellico dell’epoca della guerra
globale sono già operativi ed è proprio la logica dello ius bellico che
trasforma il lava-vetri in un criminale, l’occupazione di uno spazio in
una rivolta da sedare subito con lo sgombero e le rotte seguite dai
migranti in altrettanti campi di battaglia da disseminare di campi di
concentramento.
La nostra stessa quotidianità è oramai condizionata dal diritto
di guerra: i divieti imposti negli orari notturni (vedi Bologna), la
progressiva limitazione del diritto alla libera circolazione delle
persone, l'estensione della detenzione "amministrativa", le
disposizioni sul disciplinamento degli stadi (con l'obbligo di
comunicazione preventiva alla Questura del contenuto degli striscioni),
il proliferare delle telecamere nelle città, la proposta di schedatura
genetica, la restrizione della garanzie di difesa e delle alternative
al carcere, il superamento dell'idea di certezza del diritto a
vantaggio di ipotesi di reato sempre più elastiche ed adattabili alle
necessità repressive, non sono storture dell'ordinamento, ma teste di
ponte della sua rapida trasformazione.

Una trasformazione in cui la critica è ammessa solo come sfera
nettamente separata non solo dalle decisioni, ma anche dal semplice
tentativo di modificarle: quando la critica invade il campo materiale
delle decisioni, allora diventa immediatamente "violenza",
"illegalità", "crimine", in ultima analisi "sabotaggio".

Le profonde trasformazioni in atto, veicolate con il cavallo di
Troia della sicurezza, pongono la necessità di un ragionamento più
complesso ed articolato sulla tematica della resistenza e dei luoghi
della resistenza.

Nella discussione che faremo sul punto crediamo sia importante
dedicare parte della riflessione ad una rivisitazione dell'esperienza
rappresentata dai Centri Sociali Autogestiti. Volgendo un momento lo
sguardo alle nostre spalle è impossibile non cogliere la peculiarità di
un'esperienza che nonostante gli anni trascorsi, mantiene una vivacità
straordinaria.
Il fatto che i Centri Sociali Autogestiti, seppur tra mille
limiti e contraddizioni, abbiano attraversato l'ultimo ventennio senza
perdere complessivamente la capacità di aggregazione da un lato, e la
propria "autonomia" dall'altro, rappresenta senza dubbio
un'anomalia tutta da indagare e, soprattutto, da mettere a valore nelle
nuove prospettive del tempo presente.

3. Democrazia, territorio e reddito di cittadinanza

La radicalità del conflitto che negli ultimi tempi ha
caratterizzato l'opposizione alle cosiddette "grandi opere" di
devastazione ambientale e sociale, rappresenta un altro asse portante
della nostra riflessione.
Ovunque tale conflitto si sia determinato, la difesa del
territorio ha portato inevitabilmente con se alcuni elementi che
riteniamo prioritari nell’impostazione della discussione:

1) Salvaguardare il territorio e le comunità che ci vivono porta il
conflitto a debordare dal contesto ambientale per investire
direttamente il problema della "decisione", il "come" ed il "chi"
decide del nostro destino, della nostra vita individuale e collettiva,
presente e futura. Da questo punto di vista, per quanto riguarda il
nostro territorio, il caso della Quadrilatero è emblematico.
La Quadrilatero non è solamente una grande speculazione: la
Quadrilatero è molto di più, è la cattura, oggi, del valore che la
cooperazione sociale produrrà domani, è il trasferimento dei poteri
all'interno dei consigli di amministrazione delle società per azioni, è
la fine brusca dell'illusione storica del cittadino chiamato in qualche
forma a concorrere alle decisioni sul futuro della propria comunità.

2) Le difficoltà prodotte dall'opposizione sociale alla
realizzazione delle opere, determinano effetti generalizzati, che
travalicano la situazione locale sia dal punto di vista dei movimenti,
sia dal punto di vista dei grandi interessi dominanti: ogni punto di
resistenza in grado di bloccare o rallentare la realizzazione delle
opere produce ripercussioni diffuse, si trasforma nel sabot immesso in
un ingranaggio immensamente più grande.

3) La tematica dei “beni comuni” tende ad allargarsi e può assumere
nuovi orizzonti. Da questo punto di vista crediamo che sia importante
riflettere non solo sulla loro difesa, ma anche sulla loro
riappropriazione, sulle modalità con le quali possiamo rivendicare la
riassunzione alla sfera sociale dei beni che ci sono già stati
alienati, formalmente o in via di fatto.

La necessità di ragionare sulle forme di riappropriazione dei beni
comuni nasce anche dalla necessità di rompere la sovrapposizione tra
l’idea di “comune” e quella di “Stato” che ci imprigiona in una
falsa dialettica senza uscita tra privatizzazione e statalismo. Se è
facile immaginare che la difesa dei beni ancora formalmente pubblici
tenderà a concentrarsi nell’opposizione al passaggio dei poteri dallo
Stato alle Spa, è possibile, però, individuare nella tematica della
riappropriazione dei beni comuni già privatizzati un ampio terreno di
sperimentazione di nuove dimensioni della sfera pubblica che riporti
direttamente nel sociale la sovranità sui beni che ci sono stati
espropriati.
Crediamo inoltre che sia importante ricomprendere nella categoria
dei “beni comuni” anche il diritto al reddito di cittadinanza,
promuovendo una saldatura tra i due campi di intervento a nostro avviso
possibile sotto un duplice profilo.

Da un lato, infatti, il diritto al reddito di cittadinanza si
configura come un diritto di “tutti” ai mezzi necessari per vivere e,
quindi, per sua natura fondato su un quantum di risorse disponibili:
diritto e risorse rappresentano un insieme inscindibile ed è appunto
questo insieme che assume in sé tutte le caratteristiche del “bene
comune”.
Dall’altro, se è vero che la privatizzazione dei beni comuni è
anche espropriazione di ricchezza ed impoverimento della collettività e
dei singoli individui, è evidente che la sorte dei beni comuni incide
direttamente, sotto il profilo strettamente materiale, sul diritto di
accesso alle risorse dei singoli individui e quindi, in ultima analisi,
su una componente significativa dello stesso reddito di cittadinanza.

Comunità Resistenti delle Marche
indossati dai lavoratori francesi vengono gettati negli ingranaggi dei
macchinari utilizzati nelle fabbriche per bloccarle ed arrestare la
produzione: da

 

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